Non è tanto quello che fai, ma come lo fai. Mi verrebbe da introdurre così l’ospite di oggi. Già perché se si possono fissare dei criteri oggettivi di qualità per la valutazione di una professione, i suoi sarebbero molto elevati. Una professione nella quale si è ritrovato un po’ per caso, ma che nel tempo ha saputo sviluppare nei migliori dei modi.
Se sono lontani gli anni in cui era aiuto regista prima e sceneggiatore poi, non lo sono certo le esperienze e gli insegnamenti di quegli esordi. Certo era un altro periodo. Le occasioni per lavorare non mancavano. Erano gli anni in cui Andrea Barbato sperimentava su Rai 3 un nuovo modo di fare giornalismo ed informazione. Giovanni Minoli portava avanti i suoi faccia a faccia con Mixer. Michele Santoro si presentava agli italiani con Samarcanda.Ed è proprio con Santoro, che lui, Riccardo Iacona inizia a fare ciò che meglio sa fare: il giornalismo d’inchiesta. Brevi pezzi, sei/sette minuti massimo, ma di forte intensità. E’ il giornalismo dei citofoni. Quello dove si andava a suonare ai campanelli delle famiglie della malavita organizzata. Quello che poi sarebbe stato adottato anche da altre trasmissioni e da altri giornalisti.
Dieci anni di Santoro. Dieci anni di lavoro sul campo insieme ad altri colleghi. Operatori, macchinisti, giornalisti. Poi il 2002 e l’editto bulgaro. Stop delle trasmissioni. Un momento difficile per chi lavora da anni insieme. Per chi lavora in un clima di confronto e rispetto come in una grande famiglia.
Ma questa è anche l’occasione per Riccardo di ripartire. Di lavorare da solo. Di non demordere e continuare a raccontare attraverso delle storie il nostro Paese. Ed ecco arrivare tre grandi inchieste “W gli sposi”, “W il mercato” e “W la ricerca”. Tre importanti reportage. Un unico elemento di comunanza: la qualità.
Denunce sociali raccontate attraverso delle storie. Una dimensione narrativa che permette la divulgazione ad un numero considerevoli di spettatori di importanti problematiche. Problematiche che spesso non trovano spazio nell’informazione quotidiana – “tutti argomenti presi dall’ultima pagina dei giornali”, mi dice Riccardo al telefono ironizzando, ma non più di tanto.
Le difficoltà ci sono. Lunghi e lenti sono i passaggi burocratici dei vertici centrali della RAI per l’approvazione delle proposte giornalistiche. Molta è la fatica di uno staff di produzione, che quasi sempre lavora nel precariato, ma che attraverso la propria professionalità apporta in modo encomiabile il proprio contributo.
E proprio da questo lavoro collettivo che prende forma Presa Diretta. Un programma televisivo dove non ci sono temi, ma storie. Un programma televisivo dove c’è “il racconto fatto con il racconto”. Ed è attraverso questo strumento interpretativo che si parla di immigrazione, giustizia, scuola, nucleare. Solo per citarne alcuni.
Un pugno nello stomaco? Forse. Essendo abituati alla mediocrità dei palinsesti televisivi. Qui si viaggia ad alta quota. Il fisico ha bisogno di abituarsi alle nuove condizioni. I risultati non si fanno attendere. Presa Diretta è arrivata alla quarta serie. Le inchieste sono in prima serata. Le storie di tanti italiani sono in prima serata.
Storie che oggi sono raccolte anche in un libro. L’Italia in Presadiretta non è solo una trasposizione su carta dei reportage di Riccardo. E’ qualcosa di più. Un ulteriore sforzo per raccontare delle storie secondo un linguaggio comunicativo diverso. Un momento per lo stesso autore per fare il punto della situazione su ciò che fatto e ciò che potrà fare ancora.
Si sente che Riccardo vive le storie che racconta. Si legge che per Riccardo sono spunti di riflessione gli incontri che fa. Proprio sul libro si percepisce il suo disagio per un progetto di integrazione che non c’è. “Investire in integrazione è investire in un processo… i risultati non sono immediati, perciò non è merce spendibile in campagna elettorale, dove per ottenere voti si lavora su fronti che portano un riscontro visivo e mediatico istantaneo” mi risponde alla domanda su quale dei temi affrontati finora l’avevano maggiormente infastidito.
Un Riccardo Iacona che crede in questo Paese, ma che allo stesso tempo avverte il rischio di un’involuzione se la democrazia diventasse una democrazia limitata. Una democrazia per pochi. E’ preoccupato il suo tono quando parla che una svolta autoritaria porterebbe l’Italia fuori dalle ricchezze del mondo. E’ vibrante la sua voce quando mi dice “mi piacerebbe un Paese che partecipa!”.
Ci lasciamo con una speranza. Lo saluto con un grazie. Un grazie perché se c’è un motivo per accendere la televisione qualche volta è anche merito suo. Un grazie perché non è semplice lavorare sempre mantenendo un’onestà intellettuale e un così elevato livello di professionalità. Un grazie perché è anche attraverso le sue storie che possiamo porci qualche domanda in più.
In bocca al lupo Riccardo e continua a raccontare ciò che spesso viene volutamente tralasciato da altri. Perché qui sono le sfumature a fare la differenza.