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Quello che vi sto per raccontare è l’inizio di un viaggio. E’ un incontro avvenuto oppure solamente sognato. Sicuramente è un’anteprima. Un dialogo che forse, mi auspico, continuerà. Questo perché al di là che sia accaduto o meno, sarebbe riduttivo sintetizzare in queste poche righe la storia di questo uomo.
Ma andiamo per ordine.
La fermata del treno dove trovo lui ad attendermi è Preganziol. A pochi passi da Treviso, a molte miglia di distanza da dove lui arriva. Il vecchio West. E’ di passaggio. In visita alla famiglia d’origine, seppur si faccia fatica inquadrarne le perfette origini, visto che lui nasce siciliano, diventa veneto, ma soprattutto è indiano, indiano d’America, per indole.
Ci spostiamo in auto nelle campagne circostanti. Mentre guida mi parla di questi suoi luoghi. Spettacolari ritratti di verde, scossi da discutibili costruzioni. Proprio su questo si sofferma con una considerazione spontanea e forse per questo ancor più vera e sentita: “… questi luoghi sono stati violentati… hanno subito le conseguenze di una cementificazione incontrollata… di un urbanizzazione priva di un piano di sviluppo ragionato…”. Poi con lo sguardo verso un bosco, che come tale ha mantenuto solo il nome aggiunge: “… l’equilibrio natura e uomo… è questo il fondamento della nostra esistenza… fondamento che qui, come nella maggior parte del nostro pianeta non è stato minimamente tenuto in considerazione…”.
A parlarmi di tutto ciò non è un’ambientalista dall’animo idealista, ma Cesare Marino, antropologo e docente di etnologia amerinda, nonché uno dei maggiori esperti di cultura degli indiani d’America.
Le sue sono considerazioni fatte da una persona che guarda tutto ciò che ci circonda con una visione di vitalità d’insieme – “… capire che siamo parte di un tutto… che le nostre azioni si ripercuotono su tutto… è già un primo fondamentale passo per vivere meglio… per sé stessi… per gli altri, e forse ancor piu’ per il bene delle generazioni a venire; … perché a mio avviso sta in questa consapevolezza e in un corrispondente agire quotidiano etico e corretto che il nostro soggiorno cosi’ breve e effimero su questa Terra Madre ha un senso; non siamo compartimenti stagni – come vorrebbe farci credere un mondo moderno oramai ridotto alla piu’ squallida quantificazione venale di tutto e di tutti, ma al contrario strettamente interconnessi. Il nostro stesso patrimonio genetico, ce lo portiamo appresso sin da prima della nascita, ci ricollega all’origine, alla fonte, alla causa primaria e comune a tutte le cose. I Lakota usano l’espressione “mitakuye oyasin” piu’ o meno “tutte le mie relazioni”, che va oltre il senso restrittivo eppur basilare dei legami di parentela, ma allargabile a tutto il creato e quindi, come dicevamo prima, alla fonte originaria. Per dirla in inglese ”everthing is alive” … tutto è vivo, nelle piu’ svariate e anche affascinanti forme e manifestazioni, oggi la chiamiamo biodiversita’, che il Creatore — per chi ci crede, o i processi evolutivi, per chi non ci crede, hanno voluto imprimere!!”.Una pausa davanti al Santuario della Madonna di Conscio, per ammirarne la bellezza, per respirarne la storia e poi ci spostiamo a Casier. Da lì, seduti in un bar davanti al Sile che lentamente scorre, Cesare mi racconta un po’ della sua storia: “… io mi occupo di antropologia sia come ricerca etnografica e etnostorica che, ove possibile, nella sua componente applicata… mi piace definirmi un ponte tra gli indiani d’America e il pubblico… utilizzo volutamente il termine pubblico, dal momento che purtroppo gli indiani sono ancora percepiti dalla gran parte delle persone come qualcosa di folcloristico… legato ad un immaginario più cinematografico che reale…”.
Il suo avvicinamento al mondo dei nativi risale all’infanzia. E’ grazie alla biblioteca del padre medico, che Cesare inizia a leggere testi sulla medicina dei popoli cosidetti primitivi. Ma questo è solo l’inizio. Il suo maggiore alleato è la curiosità. Curiosità che lo porta ad informarsi, a conoscere, un mondo che apparentemente sembra lontano da lui. Invece è proprio questa distanza che lo affascina ancor di più. Il fascino della scoperta. Il fascino delle origini.
Sarà forse per questo che Cesare è attratto da culture che hanno comunque una forte spiritualità alle spalle. Emblematico è anche il parallelismo che lui stesso riesce a portare avanti. Da un lato la spinta emotiva nel conoscere il pensiero dei nativi d’America, dall’altro la spinta energetica invece nell’intraprendere una disciplina sportiva, lontana dagli indiani, ma assai ben vicina all’equilibrio dell’essere umano come il Karate tradizionale – “… sicuramente se non avessi fatto l’antropologo avrei portato avanti in modo assai piu’ completo la disciplina del karate… cosa che comunque ho cercato lo stesso di fare ritagliandomi degli spazi di tempo…devo in gran parte la mia passione per il karate all’esempio e agli insegnamenti del Maestro Ofelio Michielan, il mio primo ”sensei” al quale sono tutt’ora legato da profonda amicizia.”Ma è negli anni ’70, con in tasca ‘Sulla strada’ di Jack Kerouac, che Cesare Marino ha il suo primo concreto incontro con ciò che fino a poco tempo prima era solo una materia di studio: “… ho fatto il mio coast to coast americano, all’epoca grazie ai mitici bus Greyhound e all’occorrenza anche in autostop, “hitchhiking” come dicono gli americani, arte del viaggiare oramai estinta … con delle prime incursioni nelle riserve indiane… un sogno che prendeva consistenza…”.
Niente comunque a che vedere con l’ondata di cambiamento che gli sarebbe capitata qualche anno dopo. L’elemento che fa accendere questa rivoluzione o meglio evoluzione in Cesare è una delusione. Una delusione provocata da un sistema universitario italiano non sempre tarato sull’indice meritocratico. Da lì l’esigenza di trovare uno spazio accademico che avesse una sensibilità maggiore verso ciò che stava cercando di portare avanti.
L’American University gli risponde. Un incontro gli cambia la vita: “… John J. Bodine… il professor Bodine, era una dei pochi antropologi nativo-americani, egli stesso con radici etniche nel Pueblo di Taos, nel Nuovo Messico. Lo conoscevo gia’ bene di nome; nel 1970 era stato tra gli artefici dello storico riconoscimento dei diritti di proprieta’ e di accesso esclusivo a fini religiosi a Blue Lake, un laghetto montano sacro al suo Popolo, da parte dell’amministrazione Nixon. Tanto riservato come uomo quanto eloquente e preparato come docente, il professor Bodine mi ha accolto con una gentilezza e disponibilita’ alle quali non ero abituato … ha capito chi ero… ha capito cosa volevo fare… è stato come togliermi i paraocchi… vedere il mondo con occhi diversi… con lui, grazie a lui ho iniziato a fare l’assistente… ho portato avanti un master (molto prima che in Italia scoppiasse la master-mania)… ho concluso un dottorato di recerca, il Ph.D. americano, ma non è stato semplice per niente… pochi soldi… ho fatto i lavori più diversi per sostenermi negli studi… in libreria… in un panificio, nella biblioteca dell’universita’… insegnando naturalmente anche il karate… è stato in quel periodo che ho avuto la certezza che se alla base c’è la volontà puoi fare tutto if there’s a will, there’s a way…”.
In tutto questo c’è anche la consapevolezza di un rapporto studente/università profondamente diverso. Un rapporto sicuramente stimolato dalla competitività, ma alimentato da un grosso rispetto delle capacità. Un rapporto dove l’assistente, non è il portaborse del barone universitario, ma un legittimo delegato della divulgazione del sapere.
Con questa accelerazione, Cesare si ritrova a completare una tesi sugli indiani Cherokee, gli Aniyunwiya, “i Veri Esseri Umani” come si autodefiniscono, nella loro riserva arroccata sulle maestose Great Smoky Mountains al confine tra Nord Carolina e Tennessee. Due missioni affrontate con molto entusiasmo e pochi mezzi. A bordo del suo Volkswagen Camper alla scoperta di un popolo, e anche qui accolto con grande cordialita’ e umanita’. E anche un pizzico di curiosita’ “al contrario”, per un giovane italiano interessato di indiani d’America. Percorso questo che gli permette di aggiungere un altro tassello importante nella sua carriera di uomo e di antropologo.
E’ il 1983 e per Cesare Marino si aprono le porte dello Smithsonian Institution. Un punto di arrivo per chi pensa di fare l’antropologo. Un punto di partenza per Cesare Marino. Comunque sia il coronamento di un sogno.Da quel momento per lui si sono susseguiti corsi in veste di docente, libri in veste di curatore, storie in veste di narratore e molto altro ancora. E mentre alcuni si stanno chiedendo come possa un italiano ad avere una conoscenza così vasta sui nativi d’America, lui guarda prima la siepe dietro le nostre spalle, il fiume che scorre lento incurante di noi, e poi il cielo azzurro che non ci hai mai abbandonato durante questo nostro incontro e dice: “… mitakuye oyasin, tutto questo è vivo!”.
P.S. Per questo articolo un grosso ringraziamento a Roberto Bonzio di Italiani Di Frontiera